Fra l’amore e le levigate pietre
di Federica Falzone
In quel piccolo borgo medievale che conserva ancora le forti e levigate pietre, in quel paese delle montagne siciliane dimora il cuore di questa narrazione.
Si snoda questa vicenda tra il basolato e le luminarie di una festa che racchiude storia, cultura e arte.
Dimora ancora in queste vie strette, incorniciate da abitazioni di pochi piani, con ampie scale l’eco dei respiri e dei dialoghi di questa trama.
Mescolava con un movimento circolare costante quel sugo bollente, un po’ dolce, a tratti ancora aspro che attendeva il basilico per insaporirsi delicato.
Lo sguardo di Lina si perdeva immobile sulla strada, si udivano vari passi di bambini, mossi rapidi dalle madri che li accelleravano, strattonando i pargoli tenuti per mano.
Le palme facevano da contorno alle strade di quella valle di Himera e le montagne in cui risiede quel parco delle madonie fatto di alberi monumentali avvolge il castello di Terravecchia, stendardo del paese della danza e del folklore. E la quiete lieve che attraversa questo piccolo frammento di universo si condisce di funghi, ricotta e formaggi freschi che dal lavoro dei pascoli giungono e che il lavoro dei contadini portano in tavola. Un’orchidea selvatica si erge sulla rocca Sciara e con eleganza sinuosa si specchia nell’ordinaria vita che si snoda in quel paese fatto di memoria araba e di chiese bizantine.
Si perdeva Lina, si perdeva con i pensieri, vividamente creativi, capaci di immaginare. Si espandevano le proiezioni del suo flusso di coscienza mentre statiche le idee si facevano catturare e si riflettevano nelle pupille in cui si specchiavano le strade, i gerani, il vicolo stretto su cui si affacciava l’abitazione.
Faceva un cenno con il capo e asciugando i polpastrelli su un panno di stoffa si apprestava a raggiungere la finestrella per dire ad alta voce “Sù, svelti, è pronto”.
L’odore di pasta fresca e basilico si diffondeva intorno e il desiderio pressante sopraggiungeva, raggiungeva le labbra umide. Correvano i bambini e si spingevano per sedersi lì al tavolo, facevano a gara per avere la doppia porzione prima ancora di aver finito la prima. E mentre il caos temperava quella calda giornata di Luglio, Lina veniva colta da una irrefrenabile tentazione di osservare quel signore che zoppicante e lento si dirigeva verso casa con una foto tra le mani e un grande blocco di fogli.
Si conoscono i volti di tutti lì a Caltavuturo ma in alcuni casi le narrazioni diventano più presenti e note delle storie reali, avvenute, esistenti.
E mentre la pasta si arrotolava, roteava attorno ai dentelli in acciaio, Lina si inteneriva e incuriosiva dinnanzi a quell’anziano signore, debole con le sue chiavi fra le mani, pronto ad aprire quella porta in legno scuro e quelle persiane che filtrano il sole raggiante estremo che mai si spegne.
Il signor Nino abitava in quel paese che fa da base alle montagne. Talvolta aveva viaggiato ma non sentiva l’urgenza di evadere o andar via. Lì, fra le ripide pendenze e gli altipiani c’era quel sereno vivere quotidiano che sarebbe stato splendido se lei non fosse andata via.
Era sempre silenzioso, austero, un po’ dispotico. Si muoveva goffo e borbottava, borbottava sempre. Qualcuno pensava fosse muto perché mai dialogava con i suoi compaesani, con chi sostava accanto la sua abitazione.
Gli abitanti di Caltavuturo, residenti da parecchi anni nella valle, spesso riferivano degli aneddoti, dei racconti su Nino, avvolti dal mistero e dal dubbio.
Si narrava che il signor Nino fosse un fioraio del paese, da tutti amato per il suo modo di fare gentile, soavemente soffice. La sua bottega era oramai un luogo di ritrovo per giovani e anziani perché dedicava tempo e dedizione alle attività da lui stesso predisposte. Purtroppo dopo la morte della moglie era diventato un burbero uomo, chiuso in sé stesso, distante dalla vita familiare e sociale.
Un giorno durante la Notte Bianca mentre i fuochi d’artificio ingombravano la notte e rimbombavano in cielo, si accasciò su un muretto con una foto accanto a sé e pianse. Pianse senza quiete che sopraggiunge, pianse senza conforto alcuno, pianse senza calore avvolgente e le lacrime scesero tenere ad ammorbidire gli zigomi ossuti e gli spigoli di quella foto che ritraeva lei, raggiante, lucente. Le mancava immensamente come il vento in estate, come l’aria leggera che permette il respiro e ardentemente desiderava sfiorarle la mano un istante, accarezzarle gli occhi e provare quell’amore intenso.
Ripercorreva lunghissimi istanti che gli appartenevano, che appartenevano a lei, a loro. Ed osservava la chiesa Madre. Lì dove si congiungevano le mani, dinnanzi a quel mosaico, lo stesso mosaico che adesso vien osservato dai giovani avvolti da colorati tessuti e da donne con eleganti scarpe con tacchi e cinghiette strette in attesa del sopraggiungere di una sposa emozionata, in estasi, immersa nell’immensità del suo stupito incantevole sorriso. Il suo velo sta sotto la cupola dorata di questa maestosa abbazia, sede dei ricordi e degli istanti. Il suo velo le incorniciava le guance rosate come quello di lei avvolgeva la sua bellezza allora. E tutti si ritrovavano in quell’ampio spazio che apriva le porte alla Chiesa del convento.
Si accorse di lui un ragazzo che si avvicinò con coraggio. Sì, con coraggio, perché nessuno in paese lo avrebbe raggiunto sapendo bene che poteva con rabbia colpirlo e respingerlo.
Contrariamente alle aspettative dei caltavuturesi, il signor Nino appoggiò la testa sulla spalla del giovane, gli diede una pacca cortese e gli mostrò il meraviglioso ritratto della moglie. Era così elegante con quegli orecchini di perle ad illuminarle il viso, era così solare il suo sorriso esaltato dal rosso del suo abito, era così amabile, così dolce, così sensibilmente forte. Era così assente, così silenziosamente presente, sempre. Gli raccontò del legame autentico che li univa e li unisce ancora, gli raccontò di quanto fosse importante credere nel valore dell’amore, delle relazioni, della costruzione giorno per giorno di qualcosa di così incredibilmente vero, vibrante, centrale.
Il momento fu sublime, toccò l’anima nella sua totale purezza e si guardarono nella profondità dei loro occhi, grati.
Il signor Nino fu accompagnato a casa dal giovane e si addormentò stringendo a sé quella foto che lo avvicinava a lei, che lo faceva sentire al riparo in mezzo alle temibili intemperie. Certe notti sperava di raggiungerla, una vita insieme si spezza con difficili mancate conseguenze.
“Sembra non trascorrer mai questo tempo che non ti vede qui. Avrei voluto che fosse nostra questa primavera ancora. Vorrei che queste mani nella notte fossero qui”.
Con passo incerto si avvicinava alla cucina triste, demotivato, con l’inerzia che continuava a essere spinta delle sue giornate. Si sedette e cominciò a mordere quel pane poco morbido, sorseggiò il caffè e all’improvviso un tonfo assordante, un rumore tremendo invase l’intero spazio. Si affrettò a capire l’origine di quel suono e vide i vasi di Maria a terra, frantumati in grandi pezzi. Non ebbe parole il suo dolore. Tutto ciò che apparteneva alla sua moglie era intoccabile, eternamente degno di essere custodito e adesso vedere i vasi a pezzi lo rendeva perso, colmo di un vuoto incolmabile dentro. Li avrebbe ricomposti. Rassicurò se stesso con la certezza che avrebbe lavorato per metter di nuovo insieme ogni singolo tassellino di quelle ampolle, di quelle giare. Ma mentre raccoglieva coccio per coccio tutti gli elementi di quella giara, si accorse che all’interno dei contenitori, coperto dal terriccio umido c’erano delle scritte. Pennellate di lettere si susseguivano a formare pensieri che Maria aveva istintivamente e delicatamente lasciato come soffi di carezze.
Sapeva che sarebbe andata via presto, via dai suoi affetti, via dai giardini in fiore, via da quel volto che aprendo gli occhi era certa di trovare, era certa di amare, era certa di veder sorridere, teneramente stringere, dolcemente osservare.
Il signor Nino fece scivolare il suo corpo sulla panca alla sua sinistra, sentiva cedere ogni muscolo, ogni forza emotiva non lo sosteneva. Cominciò a leggere tutte le frasi, la sentì vicina, la sentì fra le dita, fra la sua pelle ruvida, fra le sue rughe morbide. La sentì lì, la vide seduta con le mani sulle sue guance e il sorriso ad accaldare ogni attimo.
Pianse. Poi uscì e andò al primo negozio in cui gli fu possibile acquistare una cassaforte. Doveva assolutamente riporre in essa quella terracotta con parole e cuore. Doveva chiudere tutto lì per sempre. E così fece. Finché un giorno passeggiando per le vie del suo paese sempre più colmo di moderni elementi, incastonati su antiche rupe e dimore, lì fra tradizione e innovazione e tentativo di alcuni di riportare arte e sviluppo, cultura e bellezza a questo angolo di monte, lì si sentì male e cadde, vittima di un malore, vittima di un colpo della vita che sembrò coglierlo di soprassalto.
Quando aprì le palpebre, strofinò con le nocche delle dita la pelle e subito poté scorgere che quelle erano chiaramente le pareti di un ospedale. Non voleva rimanere lì, solo. Non aveva senso per lui sostare in quel limbo, nessuna luce lo richiamava a casa. Aveva solamente paura per i messaggi della moglie sui vasi. Non ricordava neanche il testo, le parole di quelle frasi ma sapeva che appartenevano a lei e non doveva perderle. No.
Quei giorni in ospedale fecero fare delle considerazioni al signor Nino. Passeggiava per i corridoi non arredati di quella struttura e pensava a quanto fossero particolari le relazioni vissute dalle generazioni successive alla sua. Raro trovare un sentimento pieno che si nutriva di impegno, rari gli occhi che solo uno sguardo cercavano, che non si lasciavano catturare da altro. Eppure il sentimento è così naturale, l’amore è un istinto umano, un dono, un bisogno, un vorace fuoco ricercato, intensamente voluto. E il signor Nino notava forte questo desiderio in ogni uomo ancora, questa forte predisposizione ad esserci, ad amarsi, a provare tutte le sfumature dorate e zampillanti di questo sentimento che unisce e dà vita, che dà senso ed è sentiero, che è movente di tutto, che è abbraccio accogliente, eloquente sicurezza. Ma nessuno sapeva valorizzarla, custodirla, stringerla e non lasciarla dissolta come sabbia nel vento di un deserto che vede un’oasi e la sogna, la vive, la desidera continuamente.
Guardava al di là del vetro e capì qualcosa di sconvolgente, sentì una svolta pervaderlo dentro, sentì di dover forzare la sua indole. Si, era necessario.
Durante quei giorni la città si stava agghindando di bancarelle e luminarie per la gran festa del paese, per Maria Santissima del Soccorso.
E si riempiono le strade di infiniti volti, di milioni di occhi per le numerose processioni che risuonano in paese. E l’odore del torrone si espande fra le note delle bande e i passi dei credenti mentre l’angoscia si erge mentre le campane rimbombano, mentre il crocifisso si innalza prepotente e si espande nell’aria, fra le nuvole cupe. Incessanti continuano a suonare le campane del S.S. crocifisso e le manine dei bambini accarezzano le spalle dei genitori, su cui accasciano le morbide guance e le palpebre lentamente scendono, velano lo sguardo e coprono la realtà per far spazio al tempo e ai luoghi dell’immaginazione e del sereno e onirico vivere.
Appena uscì dall’ospedale e ritornò in paese, appena tornò pieno di energica salute sistemò tutti i consigli, tutte le espressioni, tutti i pensieri trascritti dalla moglie sulla terracotta e invitò ad entrare tutte le persone che passavano di lì. Questa situazione stupì tutti gli abitanti del paese, inaspettato questo cambio radicale di atteggiamento. La quotidianità si alterava.
Ognuno si rispecchiava in un suggerimento, in un’indicazione. E l’atmosfera era così familiare, così altamente emotiva da far ringraziare tutti con sincero affetto. Offriva del caffè nel giardino ben curato, lì in prossimità dei ciclamini tanto amati dalla moglie e raccontavano le loro storie e il signor Nino lasciava tutti perdutamente rapiti dalle sue parole che si intrecciavano e tessevano una tela del passato. Raccontava di come aveva conosciuto la moglie, di come si erano amati, persi nei loro occhi, cullati fra le loro braccia, voltati dopo la rabbia di un litigio, sdegnati dopo un’incomprensione. Raccontava di come riscoprivano le loro mani dopo un lieve scontro, di come si sorridevano nuovamente innamorati, di come riconoscevano ogni millesimo di espressione e pensiero anche se sotto un velo di pan di spagna. Raccontava la sublime sensazione di conoscere ogni lieve espressione, ogni curva del corpo, ogni punto che intimamente appartiene a entrambi. Raccontava di come l’amore è impegno e la vita ruota intorno alle relazioni limpide. Invitava tutti a non scambiare l’adesso che va vissuto con la mancata dedizione per quel terreno che un domani sarà l’unico vaso di fiori che potrai osservare sul davanzale della tua finestra sul mare. E di quello ti prenderai cura e sarà proprio quel vaso a donarti luce ogni giorno. Raccontava di come il destino può essere infimo e tremendo quando muove la terra con irruente violenza e si trascina sotto le macerie il corpo della persona a te più cara, lasciandoti lì inerme, solo con le infinite lacrime su di lei. Raccontava come l’amore non termina ma nella mente e nelle mani rimane sempre, c’è ancora ed è respiro di ogni giorno. C’è in quella foto, in quei ciclamini, nelle parole pronunciate in silenzio per te. L’amore è in queste frasi che oggi lei ha lasciato a lui e a tutti gli abitanti del luogo.
E oggi che il basolato antico si mischia con la nuova architettura dei locali, si passeggia inermi dinnanzi a questa sinergia rilevante. E oggi Nino e Maria si ritrovano in ogni coppia che si ferma in quei gradini del ‘600, che immagina di ritrarsi in una foto nella stessa chiesa, che partecipa al festival del folclore. E un ballo della cordella rapirà lo sguardo e tra le discese e le salite di questo luogo un po’ dimenticato, forse un po’ trasandato ma così minuziosamente delicato farà rivivere un passato sotto i lampioni, nello splendore estremo dell’anfiteatro, farà rivivere un presente che non va via. Saltellano ancora in quei calzettoni e in quelle gonne quelle coppie che agitano i nastri colorati, che si dimenano con rapida maestria e banale eleganza. E i fischietti si alternano come le trecce che si compongono.
E il valore di un angolo di terra risiede nel semplice splendore dei suoi viali, dei suoi viadotti, nell’essenza dei suoi profumi, nell’ardore dei suoi sapori così come l’immensità della vita sta nella semplicità di un bacio, di un sentimento che si spegne e si rinnova, che mai totalmente svanisce e che nelle mani si mantiene senza tempo.