Fra il profumo di limone e i fiori di Mandorlo
Di Federica Falzone
(presentato al concorso Il Salmastro- “Il mio nome è Eva e questa è la mia storia”-Marzo 2019)
Il mio nome è Eva e le lettere di cui si compone il mio nome risiedono qui, in questa terra di letteratura e arte, in queste foglie di arance e nei torroni spaccati dai vigorosi morsi di questa gente che ancora qui dimora. Il mio nome è Eva, mi specchio sulla maestosità di cattedrali e abazie e umilmente mi inebrio dei sapori di queste note pietanze fritte e delle dolci prelibate delizie. Il mio nome è il nome della donna con i grandi occhi scuri, con i ricci capelli neri ed è la fonte di ispirazione che genera le parole di strazianti lettere di chi va e mi fa scivolare lacrime sulla mia gonna scura con merletti e orli rifiniti di intenso rosso.
Ho visto molti perdersi sempre più nei miei lineamenti, tra parole e lacrime, follemente rapiti dall’odore che facevo riecheggiare nella mente, che scuote tuttora sensi e ricordi. E anche il suono della mia voce scalpita spesso, lo faccio giungere e si distingue forte fra i suoni di un altro universo che splende ma non mi appartiene. E soffio malinconiche note sulla scia delle onde e soffio euforia trasportata dal vento, raggio caldo di salsedine e fiori di mandorlo per far arrivare un abbraccio familiare, un caldo ricordo, un lieve conforto. E molti ricordano quando hanno cercato invano di non perdermi, di non dover andare lontano da me, come Mario. Ricordo perfettamente quando prese tutto ciò che possedeva dentro per farne mosaico di talenti, per rendere la sua vita migliore, tentando di creare qualcosa che appartenesse anche a me e portasse avanti la mia storia, così viva, così salda, così ancorata a radici di incantevole bagliore. Eppure non germogliavano i petali rossi. E così Mario, come altri, si sentì costretto ad andare via da me che zoppicante cercavo con fatica di rialzarmi e muovermi ancora fiera. Ha portato con sé anche il senso di colpa per non essere rimasto al mio fianco, ma cosa doveva fare? Impossibile restarmi accanto anche se avrebbe tanto voluto. Avrebbe voluto respirarmi per sempre, essere avvolto dalle mie braccia stanche ma sempre accese, calde, come suoni di un’orchestra sinfonica in un sublime teatro da tendoni porpora e lampadari di cristallo alle pareti. Ahimè, mio caro Mario, mia cara Sandra, miei cari, adesso note serene si diffondo nell’aria familiare e tiepida ma tamburelli in festa si sono persi oltre l’orizzonte di un mare in tempesta, di un vulcano innevato in eruzione. Mario, sul mio corpo hai posto il tuo sguardo e ogni centimetro di bellezza hai ammirato, sono stata per te come una fotografia che non sbiadisce, che mai si deteriora e sorpreso rimanevi incantato dalle curve delle mie sinuose insenature sabbiose, dai miei lineamenti decorati da oleandri e ricci di grano fluenti. E ricordo, Mario, come hai stretto forte al petto i profumi più aspri e come andasti via, dispiaciuto ma grato e riconoscente a chi ti donava ciò che a me chiedevi e io così fertile e ricca non ti ho potuto dare.
Che rabbia e che dispiacere provavi per me, che malinconico rammarico per un tempo e una viva ingiustizia che non mi dovrebbero appartenere. Mario, tu e Sandra eravate giovani quando siete stati costretti ad andar via dal mio terreno così fertile, così deserto, avevate tanta energia per amarvi e per sperare, per fare dei sacrifici il punto di partenza, verso itinerari prosperi di un domani certo, di un domani in cui l’incertezza non fa sentire il dolore in petto, la paura di non farcela, di non respirare ogni giorno fra l’inquietudine, tra il precario esistere e la mancanza di denaro. Avevate pochi anni, ben pochi soldi e tutti i sogni fra le mani, lì tra la volontà e il timore. Siete partiti in un giorno di metà inverno, quando la pioggia si mescola all’apertura dei maestosi petali dei fiori di primavera e stringevi forte Sandra ma in realtà eri colmo di timori e affanni.
Pian piano anche la nostalgia diveniva meno logorante e martellava meno insistente fra la pelle e il cuore. Mi sentivo così devastata, incapace di darvi serena accoglienza ed eterna dimora eppure dalle mie crepe ebbe origine la creatività di Sandra. Lei che per non soffrire cominciò a scrivere del mormorio delle signore che sedevano nelle panche della chiesa madre con le loro preghiere, dei gialli campi e dei vigneti, del forte suono delle campane che non diminuiva e di come il clarinetto risuonava nei suoi ricordi fra gli agrumeti, nelle sere d’estate di un blu cobalto oltre le mani delle palme, con le dita attorno al tuo volto e delle sue labbra sulle tue. Sandra scriveva del mare seppur oramai amava la sua vita in quella nuova terra, la sua nuova città, le sue consuetudini, e i suoi cappelli per evitare il freddo. Sandra scriveva per risentire l’odore delle foglie di limone della sua terra che amava tanto ma che dignità e realizzazione non le aveva potuto restituire. Il mio nome è Eva e sono questa terra che ha mille volti, sono il riflesso del mare negli occhi di tutti coloro che sono nati in questo scorcio di mondo splendente tra i fiori di fichi d’india e le ispide colonne di terracotta.