Una canzone
Palermo ha un suo tetto di cielo che fa riecheggiare la lontana risacca ma dal suo centro si percepisce ugualmente il lento movimento del mare, quieto e piatto quando il tempo di primavera somiglia più al caldo estivo, quel caldo che spinge a cercare frescura all’ombra o nel dimenarsi dei ventagli.
Le finestre dei palazzi erano tutte aperte quel giorno di Aprile, erano le case degli studenti universitari spesso sprovviste di condizionatori. Da una casa si sentivano brani susseguirsi decisi, musica che a Greta non dispiaceva affatto.
Aveva una valigia, due borse con sè. Sarebbe andata dopo a prendere il resto. Per fortuna traslocava da una via alla via parallela. Con questa afa risultava faticoso anche spostare una graffetta. Cercava le chiavi, un nuovo mazzo, non riconosceva ancora quale chiave utilizzare dalla forma e quindi continuava a provarne una, poi l’altra.
Quarto piano, saliva, la musica si sentiva più forte. Saranno i vicini, pensò, menomale che hanno buoni gusti musicali. Canticchiava anche lei mentre chiudeva l’ascensore e apriva la porta. Il tirocinio e il lavoro le portano via parecchio tempo e nei ritagli doveva concludere il trasloco così da poter entrare presto in quello spazio che lentamente avrebbe assunto la forma della sua identità.
Era un microscopico bilocale in cui immaginava di vivere. Riordinava i libri, ricordava quando ognuno era stato acquistato, li riponeva in ordine sulle mensole, si fermava un attimo, seduta sul divano in cucina. Fissava la parete cercando di fantasticare su quelli che sarebbero stati i momenti vissuti in casa, sospirava. La musica risuonava ancora forte, provava ad affacciarsi a seguirne il percorso, capire da dove proveniva. Pensava dal piano di sotto, non ne era certa.
I ripiani del frigo erano linee con spazi vuoti, era necessario fare la spesa, rifornirlo almeno dello stretto indispensabile. Si fermò al bar per un caffè, il signore accanto a lei al bancone scrutò la stanchezza nel suo viso, scambiarono poche battute, ritornò a casa con un sentimento di solitudine misto alla gioia di questo nuovo inizio. Sospirò ancora.
L’ascensore era bloccato, le toccò salire a piedi come se non fosse stata già tanta la fatica percepita fino a quel momento. Arrivò al terzo piano e la sentì quella musica. Ecco, da lì proviene. Rallentò il passo per scorgere altri suoni, sentì solamente la canzone.
Bussarono alla porta. Chi sarà mai, non aspettava nessuno, nessuno sapeva che si trovava già nel nuovo appartamento. Fu assalita da un po’ di timore. Aprì ed era il vicino, “benvenuta”, “se hai bisogno..”, soliti convenevoli, ringraziò e chiudendo la porta si stupì. Insolita gentilezza di un gesto che dovrebbe essere così naturale, comune, non dovrebbe sorprenderci.
Si alternavano colazioni, cene, una forchetta da lavare, un solo cucchiaio, si alternavano letture, respirava la sua solitudine, riempiva la casa di lei. Trascorsero così i giorni cercando di dare alle pareti la forma del suo essere, si cercava, si trovava negli spazi, nei colori di queste lenzuola, di queste tende, nel profumo che si annida agli angoli di casa.
La sveglia suonava con lo stesso intercalare di bip anche in una camera nuova, ancora spoglia. Era in ritardo, aveva un appuntamento in centro, corse rapida per le scale, sul pianerottolo il vicino, Giovanni, la fermò, impaziente ascoltava per non apparire sgarbata ma doveva andare, la aspettavano. La invitò a prendere un caffè il giorno seguente, Greta accettò solo per poter andare senza proseguire per le lunghe il dialogo. Fugaci saluti mentre riallineava la tracolla della borsa alla spalla.
Continuava a riordinare casa, intenta a stendere i panni appena tirati fuori dalla lavatrice, si dimenticò di aver accettato l’invito del vicino. Non fece neanche in tempo a terminare il pensiero con annesso movimento del palmo sulla fronte che sentì il campanello riecheggiare nel corridoio. “Sono Giovanni, ti aspettavo”, afferrò le chiavi e chiuse la porta alle sue spalle, percorsero insieme la rampa di scale. “La caffettiera è già sul fornello”. Le fu presentato il coinquilino Roberto, si sedettero e si fecero vicendevolmente domande, le solite per cominciare a delineare sagome più precise. Una piacevole conversazione proseguì fino a quando arrivò qualcuno, Greta dava le spalle all’ingresso, si voltò con naturalezza. Rimase folgorata, sì stupì per la sua reazione, non le era mai accaduto ma quel volto la rapì e mentre chiedeva a se stessa di frenare ogni reazione lui era già ad un passo da lei, la mano tesa “Piacere, Ignazio. Il terzo coinquilino”.
Percorse le scale in salita e ad ogni gradino si domandò perché quella reazione così intensa. I caffè divennero pranzi, i pranzi cene, le cene spaghettate di mezzanotte che si protraevano in colazioni. Erano proprio una serena compagnia.
Si sentivano meno soli, una sorta di famiglia, un luogo sicuro in cui voler tornare dopo una lunga giornata. Cominciavano ad avere un posto fisso a tavola, nessuno si sedeva sulla destra, era quello di Greta senza decretarlo esplicitamente. Bicchieri riconoscibili, lei sapeva in quale cassetto erano riposti i cucchiaini e loro dal suono della sua porta, da quanta forza imprimeva riconoscevano se era stata una giornata difficile o se era semplicemente stanca.
Si stava bene con intervalli di tensione perché quella sensazione estrema cominciava a percepirla anche negli occhi di Ignazio, quei silenzi in mezzo al rumore delle forchette sul piatto e delle risate degli altri, mentre gli occhi rimanevano intrappolati.
Nei locali si ritrovavano accanto a comprendersi con poche parole, a sorridersi profondamente, nelle passeggiate si fermavamo ad osservare dettagli mentre gli altri continuavano discorsi e percorsi. Era come se si conoscessero da sempre.
Continuava a scegliere buona musica e oramai Greta dava spunti per nuove playlist, la mattina Ignazio alzava il volume ed era il suo buongiorno, ogni giorno.
Una sera, o sarebbe meglio dire una notte, c’era una festa a cui Greta aveva deciso di non andare. Leggeva sul divano quando sentì il campanello ripetere il suo suono con irruenta frenesia. “Ignazio cosa ci fai qui?” chiese stupita, entrò in casa senza neanche un “posso?” e si diresse in cucina, si era annoiato alla festa, voleva fermarsi a parlare un po’ con lei. Erano le due del mattino, le sembrava agitato e irrequieto, due riflessioni fugaci, qualche commento e con l’istintività di chi aspettava quel momento, si ritrovarono sul tavolo, le braccia attorno al collo, travolti da baci forti e da gemiti incontrollati, si guardavano, accarezzavano, rimanevano avvinghiati con le gambe alla schiena come se quella pelle fosse sempre stata la loro casa per poi finire sul divano nudi, lo sguardo addosso, incredulo e soddisfatto. Ridevano e si incastravano tra il collo e le labbra, tra i capelli e le dita, tra gli occhi e le isole della mente. Continuavano a far scivolare le mani sulle linee del corpo che adesso era lo spazio sereno in cui fermarsi.
Non faceva in tempo a dire “vado” che con la mano la tirava nuovamente a sé, sfiorandole ancora con la lingua i confini del collo, dei fianchi, il volto. Il verso delle cicale fuori dalla finestra segnava la notte, poi l’arrivo del mattino, la lampadina accesa sopraffatta dal sole che sorge e loro ancora lì tra le braccia nudi.
Ignazio andò via quando il giorno iniziava a riempirsi e le strade erano già inondante dalle auto. Greta sospirò e percorse il corridoio stupita, un ghigno faceva eco tra le pareti, l’acqua fredda della doccia fluiva con la stessa frequenza delle note dalle casse del cellulare, note interrotte da una notifica. Mentre goccioline rimanevano appiccicate alle spalle umide, con un gesto rapido sbloccò lo schermo, era lui “Ti sento ancora addosso”.
Sembrano film, romanzi, troppo sdolcinati finchè non si vivono davvero e allora pellicole, righe, diventano specchio del possibile.
Gli altri inquilini non sapevano ancora di quel che era accaduto e allora quelle colazioni che diventano pranzi, che diventano cene racchiudevano una sorta di segreto, tradimento, desiderio messo faticosamente a tacere. Si guardavano, colpivano sotto il tavolo, mordevano il labbro e si guardavano insistenti. Succedeva anche prima, ora in modo più intenso e allora si baciavano nell’ascensore, staccandosi bruscamente un attimo prima di sentire quel tonfo che fanno i meccanismi quando si fermano. Si baciavano mentre gli altri erano di spalle, si intrecciavano le dita sotto la tovaglia piena di macchie di salsa e molliche di pane.
Perché lo facevano? Per tenere questo brioso filo, forse per spalmarsi creme di certezza, per pizzicarsi le mani ed esser sicuri che tutto fosse reale.
Dialogavano di notte, con le finestre aperte e i cuori pure. Si perdevano tra i racconti e i cuscini, con quale peluche dormivi di notte da bambino, di che colore era il tuo zaino, cosa non vorresti mai accadesse in futuro, quanto hai pianto per quella storia, cosa ti fa incazzare di tua mamma, quante cose non dici adesso, dove andavi in vacanza con la tua famiglia, anche io, stesso posto. Era così che avevano scoperto che entrambi trascorrevano le estati da piccoli in un paesino sperduto e dimenticato anche dai suoi stessi abitanti, una contrada sul mare che casualmente era diventata la meta di agosto nonostante sia lei che lui abitassero alle parti opposte di quella costa.
Giovanni dimenticava sempre le chiavi della macchina, quel giorno non era tornato subito dopo. Invece era successo anche quel giorno, ci aveva impiegato solo più tempo ad accorgersene. Fu così che i discorsi sulle vacanze e i baci furono interrotti da un giro di chiave frettoloso.
La porta della camera era aperta, capì che tra Greta e Ignazio non erano più occhiate di sintonia ma occhi che sfiorano corpi e pensieri esplorati. “Scemi”, sorrise, se ne andò. Disse solo questo. Scoppiarono a ridere, ridere, ridere, tenendosi le pance come se pezzi di sè dovessero scappare dagli ombelichi e rompere i vetri intorno.
Da lì le mani cominciarono a intrecciarsi sopra il tavolo, da lì i baci aumentarono, incapaci di staccarsi quando uno dei due doveva andare via e si apprestava a raggiungere la porta. Da lì le canzoni divennero la canzone che riempiva la stanza e i pensieri.
Continuarono a fare l’amore, rimanevano uno dentro l’altra sul tavolo della cucina, sul letto, sotto la doccia, fra le lenzuola e gli occhi dentro gli occhi, l’anima dentro l’anima.
Erano pieni, pieni di vita, pieni dei loro profumi, pieni delle loro narrazioni, pieni dei pensieri dell’altro che diventavano un po’ propri.
Un pomeriggio sempre più afoso, con la calura di Luglio, Greta faceva la spesa con la canzone nella testa, i passi leggeri dell’amore, si fermò in tabaccheria per pagare le bollette, entrò spedita e non si rese conto subito, si trovò a un passo da lui, rimase immobile, cambiò celere l’espressione, il volto, lo sguardo, la luce del viso, il passo adesso pesante, cemento che non riusciva a muoversi e andar via. Paralizzato. Lui e un’altra, “lei è la mia vicina”, cercava da lei la complicità per rendere naturale quell’incontro, non far sospettare la fidanzata, della cui esistenza Greta scopriva in quell’istante. Lei non riuscì a fingere, paralizzata, muta, sparì.
In un solo secondo la bellezza va in frantumi, il tempo si ferma, la serenità diventa angoscia, la quotidianità incubo, la speranza seppellita insieme alla fiducia nell’essere umano. La bolletta rimane non pagata, le lacrime cominciano a scendere mentre si salgono le scale e la porta di casa si chiude ma il mondo entra dentro. I sensi di colpa inconsapevoli emergono.
La canzone continuò a riecheggiare nel pianerottolo, la caffettiera per una sola tazza ricominciò a essere utilizzata e Giovanni divenne una voce al telefono. Greta evitò di fermarsi al terzo piano per un po’. Lo incrociava per le scale e scappava. Lui cercava di recuperare il rapporto con la fidanzata ma la cercava dalla finestra. Calpestava tre gradini, quattro e poi ritornava giù, accendeva la musica. Lui la chiamava, lei rispondeva, lui riattaccava. Mille volte.
“Devo riprovare a recuperare il rapporto con lei. Perdonami” solo un biglietto sotto la porta. Lei pianse seduta per terra, lui si fermò davanti alla porta, sul pianerottolo e pianse. Entrambi appoggiati con la schiena a una porta che chiusa li teneva divisi, nonostante le lacrime avessero la stessa consistenza.
Giorni di silenzio e di caffè al bar si susseguirono, Giovanni e Roberto continuarono a essere compagni di risate ma la sera davanti a una birra in centro. Tornati a casa quasi estranei nello stesso condominio.
Rabbia, rabbia, rabbia, rabbia e tremenda tristezza di non veder quell’incontro proseguire meraviglioso. Questo provava Greta. Questo urlava Greta camminando sprezzante e tumultuosa fra le vie del centro.
Ignazio non riuscì a recuperare nessuna relazione, cominciò a correre in auto nella notte. Lei scoprì che sfogava così il suo dolore, non accettò questo scompiglio irrazionale e pericoloso ma troppo ferita non volle neanche provare a dire qualcosa. Si preoccupava, in fondo gli voleva ancora bene. In modo viscerale, l’aveva dentro.
Lui non riuscì a recuperare nessuna relazione, la fidanzata non potè fare a meno di constatare che nei suoi occhi c’era solo lei, che soffriva nell’averla persa. Lui continuava a guardare fuori dalla finestra, a salire tre gradini oltre la sua porta e tornare giù.
Istintivo come sapeva essere, nel bene e nel male, accettò una proposta di lavoro in Grecia e partì subito. Lei lo venne a scoprire quando la nave era già salpata, lei rimase a guardare le luci del porto.
Tutto da lì crollò e pian piano sembrava mettersi a posto. Di lui rimanevano post sui social e qualche racconto dei suoi coinquilini, lei era tornata a pranzare con Giovanni e Roberto, a cenare e preparare spaghetti a mezzanotte, risaliva in casa e si addormentava senza altre braccia a stringere la notte silenziosa. E una di quelle notti silenziose fu interrotta dal suono del campanello vigoroso, insistente. Si sarà sentito male Giovanni? Roberto? Pensò. Aprì rapida, “che succed..?” Ignazio lì davanti, bello come sempre, con quel bagliore negli occhi. La voglia di stringerlo e baciarlo fu sostituita da un “che ci fai tu qui?”, indietreggiò. “Posso entrare?”
“Perché non sei in Grecia?”, la voglia di stringerlo cresceva ad ogni lettera pronunciata, ad ogni silenzio, ad ogni respiro affannato.
“Non riesco a dimenticarti neanche lontano da qui”, si avvicinò a lei ma lei si scostò. Troppo ferita.
Dalla tasca dei jeans lui tirò fuori una foto, due bambini, una casa alle spalle, teli stesi su un filo, gonfiati dal vento. “Non posso crederci”. Erano loro, non solo trascorrevano le vacanze nello stesso luogo ma erano già il loro luogo. Giocavano insieme.
Lui disse “A quanto pare ho scoperto che non è la prima volta che mi tiro indietro con te”. Non aggiunse altro. Greta era curiosa ma ibernata nella sua crepa non chiese nulla.
Non bastò quel misterioso intreccio di sincronia e poesia, non bastò perché lei mise troppo sale su quella pietanza che non era fatta soltanto di lacrime e delusione che uccide e non fa provare più nulla. Non era fatta solo di paura di potersi ritrovare nella posizione opposta. No, c’era molto orgoglio.
E se ne andò così lui, si sedette sul divano lei avvolta da un sentimento strano. “Non è giusto per me”, ne era convinta anche se mandarlo via non era stato semplice. Ne era certa.
Le aveva lasciato una busta, fece oscillare le pupille da sinistra a destra, rilesse quelle pagine. Erano molte, pagine di scuse, pagine di ricordi, pagine di emozioni ancora vive, pagine di rassegnazione, una fine che non si vorrebbe ma doveva esserci perché lui aveva fatto male a due cuori, aveva ferito due corpi. Adesso aveva compreso la forza del loro sentimento, gli era chiaro quanto fosse inutile innalzare dighe. Niente era capace di interrompere il suo flusso.
“Non ho mai avuto il coraggio di confessarti che quello che abbiamo vissuto nascondeva un sentimento troppo forte. Sono scappato, sapevo che era raro e volevo mantenerlo per sempre. So che è assurdo ma ho avuto paura, dovevo solo guardarti e dirti tutto quello che sentivo. Tempo e caso sono stati due tiranni. Avrei dovuto affrontare i miei problemi e viverti, adesso rimani qualcosa di raro e prezioso dietro una vetrina, avevo tutti i mezzi per starti accanto e adesso mi limito a sfiorare il vetro. Come diceva una nostra canzone, ora è tardi per costruire quel che la gente chiama amore, una parola grande quanto il mare, che spaventa chi ha paura di affogare ma tu mi riempi come fossi un sole e io non so che scappare da te. Mi rendo conto troppo tardi che ci vuole un attimo per perdere qualcosa che soltanto il tempo svela quanto sia importante”
Ripartì per la Grecia lui, ripartì con il suo ritmo quotidiano lei.
Si incontrarono dopo anni, lui le portò il regalo che aveva tenuto con sé, acquistato quando aveva saputo della sua laurea. Si incontrarono e si abbracciarono, ritrovarono l’affetto in quel cerchio di anima. Si allontanarono ancora. Le loro vite andarono avanti, altri volti, un pezzo di loro sempre dentro, note di quella canzone incastrate ancora tra il presente e un filo rosso, ingarbugliato, lungo, resistente.
Perché la vita rende complicati gli incontri? Perché il tempo non è sempre alleato ma infido torturatore?
Ricomparivano con una foto, un messaggio, sempre con un sottofondo di rimpianto ma distanti per sconvolgere esistenze che si muovono indisturbate. Ricomparivano sospinti da tempismo beffardo e sincronismo dubbioso.
Dieci anni dopo, la voce annunciava la partenza del volo 21496 quando due trolley si scontrarono, “Mi scusi”, “No scusi lei”, si guardarono, erano loro. Com’erano diversi, com’erano uguali. Era lì il loro tempo? Adesso? Era forse il momento per raccontarsi quella storia della foto rimasta incompleta?
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