Rapida strofinava la spugna sul tavolo per mandar via le macchie di caffè e marmellata. Stendeva i panni e poi si occupava di mettere in ordine i libri della saletta, tutti i giochi della veranda.
Annalaura faceva un respiro soddisfatto, controllava la posizione delle lancette sull’orologio e beveva un bicchier d’acqua prima di preparare il pranzo. Lavorava nella comunità di Viale Lazio da anni ormai e il martedì svolgeva le sue mansioni svelta ma con precisione. Controllava e verificava ogni cosa. Meticolosa si occupava di predisporre tutto come di consueto.
Il martedì erano tutti un po’ agitati, in particolar modo Franca, la responsabile della comunità per minori. Il martedì era il giorno in cui venivano accolte le famiglie che avevano fatto domanda di adozione. Alle 17.00 iniziavano a bussare numerose coppie per conoscere i bambini e trascorrere del tempo con loro. Qualche rapporto diveniva così esclusivo, così speciale da continuare il martedì successivo e magari quello dopo ancora. A quel punto si poteva iniziare a pensare, supporre, sperare che forse quella coppia era quella giusta, quella giusta per essere la propria famiglia, il proprio padre, la propria madre.
Per Annalaura era sempre un momento così bello e allo stesso tempo così crudele, strano, difficile per i bambini. Lei sapeva bene che dietro quel martedì c’erano professionisti che selezionavano, valutavano, ponderavano ogni scelta, ogni incontro ma nonostante ciò per lei quel martedì era il giorno dei visi ansiosi, delle illusioni, dei sogni infranti e delle delusioni, delle crisi della sera che si mescolano agli occhi sfavillanti di chi si addormenta con la speranza.
AnnaLaura il martedì si rendeva conto di come tutto fosse così strano. Quello che per ognuno è quasi scontato, ovvio, nascere in una famiglia, portarsela dentro, dietro, addosso, accanto, in quel caso non lo era. Si agghindavano, si pettinavano come se fosse il giorno di Natale, come se ogni martedì fosse festa. Si vestivano con precisione per risultare più curati e piacere a una coppia che avrebbe scelto un viso, una vita da salvare, una vita ferita da sanare, cucire per quanto possibile, avrebbe scelto un viso da consolare, a cui regalare un’attenzione, una bambolina, una macchinina, molto di più, molto più di questo.
Il giorno successivo ad Annalaura bastava osservarli un millesimo di secondo per comprendere come fosse andato il pomeriggio, quali aspettative frustrate, quali speranze accese.
Di Marta, addirittura, le bastava sentire il respiro. La conosceva oramai in ogni suo aspetto e conosceva la sua storia, logorata e “sudicia”, faticosa seppur breve. Conosceva la stanchezza di vivere di Marta nonostante l’asticella del sentiero percorso segnalava un tratto così corto.
Quel giorno ne sentiva l’ombra, il peso, la consistenza.
Per lei i Martedì erano giorni ancor più duri, si faceva assalire dall’ansia, dal desiderio di una relazione importante e spesso diventava troppo esuberante o troppo silenziosa e non riusciva a instaurare un contatto con le coppie, le coppie non riusciva a instaurarlo con lei.
I suoi compagni si mettevano un po’ in mostra, per Franca, per Annalaura era evidente. Loro conoscevano tutti molto bene, nei loro aspetti meravigliosi, luminosi, forti nonostante le difficoltà, li conoscevano nelle loro crisi più profonde.
Per Marta ogni Martedì era ancora più difficile ma era necessario tentare.
Per Marta ogni Mercoledì era uno scontro corpo a corpo con le sue frustrazioni.
“Marta, cosa stai facendo?” chiese indifferente mentre aveva colto ogni sfumatura di quel che vedeva.
L’aveva trovata davanti a sé immersa in una tazza di gelato, patatine accanto e si ingozzava, le guance piene sino a scoppiare, gli occhietti teneri e fragili pronti a cedere e sprofondare in un pianto singhiozzante, disperato, angosciato.
“Tanto non piacerò alla nuova mamma”
Inaspettatamente, in un solo boccone di fiato disse così, diretta centrava il bersaglio senza dissimulare, senza giri immensi di circonlocuzioni e astruse finzioni.
Annalaura la abbracciò forte e le disse “Su, non è per niente così”. Prese dal cassetto un cucchiaino e lo immerse nella tazza di gelato, ne mangiò un po’ lei, un po’ Marta. Poi allontanò la tazza e abbracciandola ancora disse “Andiamo a fare una passeggiata io e te da sole”
Provò ad avanzare una richiesta all’educatrice. Sapeva bene che non sarebbe stata accolta ma provò. Chiese di uscire con la piccola, l’avrebbe riaccompagnata la sera. Distratta e presa da numerose faccende e pratiche acconsentì. Ne approfittarono e in fretta sgattaiolarono fuori.
Marta rideva con il sorriso spensierato di una bambina e guardava Annalaura con gratitudine che non trova vie per prendere forma e consistenza, per divenire suono delle parole.
La spensieratezza Marta aveva provato a viverla muovendo i piedi veloci sui pedali della bici ma era solo un tentativo disperato di dare al vento il dolore e di cedergli gli affanni.
Terminato l’orario di lavoro, Marta e Annalaura fecero la spesa, fecero un giro in centro e decisero di bere un buon succo di frutta alla pesca. Lo sorseggiarono sedute sulle panchine del parco, osservavano i bambini giocare, ridevano per qualcosa di poco conto e Marta raccontava qualche vicenda accaduta a scuola o in comunità con gli altri bambini. Guardava le persone che rapidamente percorrevano il viale con la bicicletta.
Marta le raccontò che lei amava andare in bicicletta. Ne possedeva una tutta verde e non vedeva l’ora di tornare da scuola per andare in giro con la sua bici. Più andava avanti con la storia, con le parole più il suo entusiasmo si spegnava. Annalaura non riusciva a capire bene.
“Cosa c’è Marta?”
“Niente, Niente” sorrise, non voleva inquinare il sapore limpido di quella giornata.
Andarono in via Manzoni, entrarono da “Pagine”, una libreria con uno spazio lettura per bambini unico. Acquistarono un piccolo racconto e un album da colorare. Si fermarono su un basso tavolo rotondo e diedero vita a quel bambino con il cagnolino disegnato sulla prima pagina.
Era giunta ora di cena, era arrivato il momento di tornare a casa. Marta salì in macchina, si allacciò la cintura e guardò Annalaura con affetto e gratitudine, ancora una volta. Prima di raggiungere viale Lazio dove si trovava la comunità andarono pochi metri più giù. Simone, marito di Annalaura, aveva terminato di lavorare e gli diedero un passaggio. Lui salì in macchina e senza aver ancora chiuso lo sportello disse: “Come è andata signorine? Dove siete state? Vi siete divertite?”. L’allegria e il calore di Simone misero subito a suo agio Marta che solitamente faceva fatica ad approcciarsi con le persone, soprattutto quelle che conosceva poco. Riuscì, così, a scambiare con lui qualche battuta. Sembravano in sintonia.
“Siamo già arrivati” disse appena la macchina si fermò davanti al portone verde.
“E’ stato bello” Pronunciò celere Marta, non terminò neanche le ultime sillabe. Affrontava in questo modo i momenti difficili. Quello era proprio un momento difficile, era proprio difficile staccarsi da loro e tornare in comunità. Era stata bene, sembrava che tutto il resto, il passato, il luogo in cui viveva fossero spariti.
Annalaura vedendo la sua reazione ebbe paura di aver fatto la scelta sbagliata, di averle procurato un dolore maggiore facendole trascorrere quel pomeriggio semplice, diverso.
Marta l’abbracciò forte, “Grazie” aggiunse. Si acquietò ogni timore.
Corse in camera, si preparò per mettersi a letto e si addormentò con il libro di favole tra le mani.
Ogni giorno, uscita da scuola, Marta correva con lo zaino ancora sulle spalle e apriva la porta sperando di trovare la “sua assistente”, sperando che quel giorno avesse il turno. Si sentiva sollevata quando giunta in cucina vedeva il viso paffuto di Annalaura incorniciato dai capelli legati in una coda, si sollevava quando la salutava facendole un occhiolino. Lei continuava a pulire la cucina mentre ascoltava i racconti di Marta, quello che era accaduto durante la prima ora, durante la merenda, quando aveva vinto la gara dei verbi.
“Brava tesoro, ora andiamo a tavola dagli altri” le diceva accarezzandole la testolina piena di capelli scuri.
Una settimana si agganciava a un’altra settimana e i martedì si presentavano sempre più insidiosi, tortuosi, difficili da affrontare. Iniziarono feste, feste per Marco, feste per Lucrezia, Feste per Emilio, feste per chi aveva trovato una famiglia e andava via. Iniziarono pranzi di benvenuto per chi arrivava. Marta restava sempre lì.
“E’ perché sono grossa vero?”
Franca non ponderava il peso delle affermazioni sulla salute e divenivano mine, proiettili incastrati tra il pensiero e il respiro. Più volte aveva trovato Marta mangiare voracemente il suo pasto e i biscotti e le briciole sul tavolo. Non aveva scelto il metodo migliore per sottolineare quel comportamento poco idoneo. E così divenne cibo per la sua insicurezza, divenne incertezza del suo passo, motivazione del rifiuto nella sua mente. Annalaura cercava di annullare quelle parole ma le parole si sanno annidare bene, sanno seminare il terreno in fretta soprattutto se parole cupe cadono su terreni calpestati, annientati.
Quelle parole si adagiarono facendo un tonfo spaventoso sul suolo terribile, sulla colpa senza rimedio di nascere nella famiglia sbagliata, di nascere in svantaggio con il mondo, di sperare di crescere annullando questo sbilanciamento casuale, innaturale. Marta andava a scuola sperando in questo passaggio, sperando di sentirsi con i compagni meno diversa, simile al gruppo. Non ci riusciva, inventava storie, inventava modi, non calibrava la giusta modalità di contatto e a volte i compagni si distanziavano. Marta, però, riconosceva immediatamente il bisogno di chi le stava di fronte, accanto ed era la prima a porgere un fazzoletto a chi stava per piangere o a prestare una matita a costo di rimanere senza.
Un martedì di Aprile rientrò a casa e con le dovute accortezze le comunicarono che doveva salutare Giulia, la sua amica, l’unica rimasta in comunità delle sue coetanee, arrivate insieme a lei. Aveva perso un’amica e con lei la speranza di trovare una famiglia. Erano andati via tutti e lei non era stata la scelta di nessuna coppia.
Rimase sveglia tutta la notte, rimase sveglia anche Annalaura che non riuscì a non discutere di questa storia neanche con suo marito Simone. Le procurava un senso di tristezza, un dolore al petto, le lasciava uno sconforto addosso.
Il giorno successivo stava spegnendo il telefono Annalaura, stava facendo scivolare la cerniera per chiudere la tasca della borsa quando si sentì stringere forte. Marta l’aveva raggiunta, l’abbracciò in silenzio e tornò a guardare i cartoni animati in tv con gli altri bambini con i quali instaurò un legame fantoccio, molto più di accudimento che di amicizia, di parità. Annalaura preparò una torta per il pomeriggio, sperava di rendere più piacevoli le ore. Quel pomeriggio, non passò neanche da casa, doveva correre alla posta a ritirare un pacco. La coda era interminabile e tutte quelle figure in fila erano il segno inequivocabile che non sarebbe mai tornata a casa prima delle sei. Chiamò Simone.
“Amore faccio tardi, compri tu il pane?”
Mentre era al telefono, stanca e con il desiderio di chiudere la porta, togliersi le scarpe e abbracciare Simone seduti sul divano fu distratta dalla signorina in fila davanti a lei. L’aveva notata sin da subito per il suo aspetto composto e cordiale e non riuscì a fare a meno di osservare la sua eleganza sobria e discreta. Aveva incontrato una vecchia collega, suppose Annalaura, e dialogavano a bassa voce. Origliò l’intera conversazione con poca discrezione e con un pizzico di maleducazione ma per una giusta causa.
La ragazza raccontava con imbarazzo, sottovoce che lei e il marito sentivano il desiderio di avere un figlio ma che purtroppo erano venuti a conoscenza che non potevano averne. Ne avevano sofferto ma avevano accettato e stavano valutando altre vie, altre possibilità.
Non fece in tempo a ordinare una riflessione che l’istinto si portò via rapido ogni pausa, ogni binario del temporeggiare.
“Salve, dovete perdonarmi ma è stato impossibile per me non ascoltare”
La ragazza, Aurora, che era una persona alquanto riservata e si era lasciata andare a quella confessioni lì più per la vicinanza con l’amica che per il momento, si infastidì ma continuò ad ascoltare.
“Lavoro in una comunità per minori. Il personale specializzato e competente valuta coppie per affidamenti e adozioni. Perché non valutate questa opzione? Dovreste venire. Vi lascio il numero di telefono dell’assistente sociale. Pensateci”
Memorizzò il numero di telefono dell’assistente sociale e della signora appena conosciuta. La collega le diede un’occhiata che lasciava intendere palesemente che quella era una possibile occasione, un possibile segno del caso da non far cadere senza peso, nell’oblio.
Aurora aspettò il marito e raccontò quello che le era successo, un po’ divertita, un po’ stupita, un po’ in attesa del riscontro di lui per capire bene cosa fare. Passarono pochi giorni e sentirono di dover fare quel tentativo. Era necessario.
“Salve, piacere” si presentarono a Franca.
“Piacere” Si presentarono al Dottor Adrise.
Marta rimase sull’uscio della porta di camera sua, sbirciava tutto da lontano. Annalaura era lì, salutò la giovane donna appena conosciuta che oramai sentiva tanto cara. Diede una pacca sulla spalla alla piccola e la incoraggiò, fecero un respiro profondo insieme, all’unisono e aspettarono che quella coppia, forse la sua coppia, uscisse dallo studio del Dottor Adrise.
I tempi furono lunghi, valutazioni, moduli da compilare, incontri, valutazioni, altre valutazioni, incontri e altri incontri. Arrivarono all’appuntamento del Martedì, con Marta fu sintonia immediata, un filo di connessione unico che pian piano li condusse a casa. Una casa con una cameretta solo per lei, non poteva crederci.
Non fu semplice, d’altronde non è facile, bisogna rallentare, accelerare, fermarsi ma non troppo, prendere il giusto respiro, accordarsi con quello dell’altro. Non è per nulla facile ma bisogna costruire su una storia vissuta, una storia che pesa spesso come macigni. Marta era pronta a salire su quel macigno e a lasciarlo sotto i piedi, era pronta a slegarlo dalla caviglia ma non è per nulla facile. Si ha paura.
Con tenacia, con pazienza, riuscirono.
L’amicizia con quella signora alla posta si consolidò, Annalaura li aiuto molto a custodire la storia di Marta senza farla diventare lei, senza, però, annullarla, rimuoverla.
“Mamma, sono arrivati” correva Marta verso la porta.
Ad Aurora suonava ancora strano sentirsi chiamare mamma.
“Ciao cara, ciao Simone ben arrivati. Accomodatevi in giardino, Marco sta preparando l’aperitivo”
Si ritrovavano in giardino, Marta giocava un po’, si fermava a mangiare con loro e poi prendeva la sua bicicletta con i nastrini rosa e faceva il giro della casa canticchiando la sigla di quel programma tv che tanto amava. Marta muoveva i pedali, si teneva salda al manubrio della biciletta per rimanere in equilibrio e giocare, spostarsi da un punto all’altro del cortile.
La bicicletta adesso, significava sentirsi arrivare il vento sulle guance. Aveva adesso, ancora, di nuovo, valore di leggerezza e spensieratezza per lei che aveva corso veloce per lasciare al vento i pensieri, i pensieri cupi e infidi, per scappare lontano dai fatti che accadevano in casa, che su di lei avvenivano.
Ancora adesso Marta fa delle lunghe passeggiate in bici con mamma e ogni tanto suona il campanello, lo fa come fosse il pizzicotto sul braccio, lo fa per capire se tutto ha la consistenza di un sogno.
Non è un sogno e il vento le sposta i capelli, scosta le ciocche dagli occhi mentre pedala, senza scappare, lì, con mamma Aurora.
Immagine da pixabay
Racconto molto avvolgente e carico di emozioni che arrivano dritti al cuore.
Ho letto questo racconto con molto interesse perché i particolari sono descritti in maniera dettagliata ma senza mai tralasciare il coinvolgimento emotivo. Si percepisce una nobile sensibilità .