Il tempo che ci vuole – Recensione del film di Francesca Comencini

“Il tempo che ci vuole”: leggo tra le proposte al cinema e mi innamoro subito del titolo che assomiglia più a un’indicazione, a un suggerimento, uno di quelli che sembra conoscerti e arrivare al momento giusto.

Ah il tempo, un concetto sempre così complesso, alleato e oppressore, complice e nemico, l’ho sempre pensato, ne ho parlato in “Qualsiasi cosa accada, tu scrivi” costretta a farci i conti in maniera assurda, paradossale, obbligata.

Scelgo di fermarmi al titolo, di non approfondire attraverso sintesi di trame, recensioni anticipatorie e mi siedo tra la platea di spettatori, quell’accozzaglia di gente variegata per interessi, età, contenitori di differenti storie che risuoneranno su un frame, un dettaglio, una battuta perchè se ognuno lì in sala ha scelto di vedere quel film è mosso da una scintilla che si è accesa, si è lasciata accendere e attende di capirne il senso, di veder soddisfatte o negate le aspettative.

Bastano poche scene per sentirmi rapita, catturata, trasportata dentro la narrazione, lentamente si spoglia di ogni strato il racconto sino ad arrivare al fulcro di quel titolo accattivante, profondamente denso.

E’ la storia di un legame, quello di Francesca Comancina e il padre, suo padre ma il padre di generazioni travolte dal successo della trasposizione cinematografica di “Pinocchio” del 1972, classico acclamato ed entrato nella memoria di intere generazioni, studiato da talenti del cinema, specchio di una personalità creativa e attenta che si definisce artigiano piuttosto che artista.

E’ la storia di un rapporto padre- figlia ma è molto, molto più. Dentro c’è uno scrigno di dettagli, di emozioni che esplodono nella scelta di puntare le luci sulla diade e annullare il resto intorno, gli altri memrbi della famiglia, le altre stanze. La casa sembra avere due stanze: lo studio del padre, la camera della figlia, il corridoio a collegarle ed è proprio in quel ponte, lembo di terra e di incontro che avviene l’apice del dramma, il passaggio, il punto di non ritorno, di salvezza o di morte.

Romana Maggiora Vergano seduta su quel pavimento interpreta lo stato emotivo di Francesca Comencini, coraggiosa nel suo manifestarsi, esporsi per fare dell’autobiografia non un’accentramento, esaltazione di sè ma un dono per fare della propria storia uno specchio di conforto per gli altri.

Dopo un susseguirsi identico di “Dove vai?” seguito da risposte molteplici, infinite poste tra l’ironia e il pathos di ambivalenze emotive che dimorano al confine dell’angoscia, inizia l’atto rivoluzionario che costringe a una convivenza per “il tempo che ci vuole”, sussurrato sui gradini, forte come fosse amplificato da mezzi di grande impatto.

Perchè non possiamo definire a priori il tempo di un processo, necessario a riappropriarci dei sogni, delle identità, dei rapporti, di noi stessi ed è nel processo che si attaccano addosso dettagli e quando vogliamo lavare via tutto, anche i germi che il dolore lascia, alcuni acari rimangono sulla pelle e diventano bulbi da cui nascono non fiori ma grandi arbusti.

Una frase, un’idea, un paesaggio, un film che diventa perno, che diventa verità e che diventa l’istante che riappare quando non troviamo il perchè. Ognuno il suo.

La sensibile e coltissima regista in modo viscerale si lega a dettagli e rende egregiamente quel momento in cui scopre il suo daimon, la sua ancora, suo padre, lì dove si condensa tutto e il tempo della vita e del cinema si intrecciano ricordando che il primo deve sempre avere priorità e poi porterà avanti il lavoro.

Il lavoro creativo si pone in quel “soffio circolare della vita nell’arte e l’arte nella vita”.

Non abbiamo tempo, inseguiamo la fretta di essere, riuscire, non lo abbiamo neanche per ascoltare i bambini fondamentale atto per capire, formare, arricchire il cuore e Luigi Comencini aveva una capacità insuperabile in questo.

L’incredibile intreccio di sentimenti, narrazione e immagini è reso magistralmente dall’interpretazione straordinaria di Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, di Anna Mangiocavallo.

Al termine della proiezione, dopo un “prolisso” a dir quanto meritato applauso, Francesca Comencini e Mattia Carzaniga si concedono al pubblico e con naturale vicinanza e intelligenza rispondono alle domande.

Non si può che ringraziare la regista per la serata e per aver incontrato il mattino seguente gli studenti di Piacenza. Spero i ragazzi abbiano trattenuto in memoria la pellicola, lo scambio ma soprattutto “l’elogio del fallimento” nella loro ricerca identitaria, mai totale e definitiva.

La realizzazione di sè non si può mai definire conclusa durante il ciclo di vita e genera inevitabilmente un confronto che sente l’ombra del tempo veloce, di traguardi come giganti ciclopi davanti ai quali abbiamo timore forse di mettere in campo l’astuzia di Ulisse, di generare risposte controcorrente e personali, bloccati da esigenze materiali.

Francesca Comencini mostra però che ogni generazione ha avuto il suo Loch Nness e che è stata denigrata, si salva chi diventa se stesso, riconoscendo quel bagliore dentro unico, quell’immagine di inseguire, che resiste a numerosi fallimenti perchè “se ti metti in gioco devi scontrarti con il non essere all’altezza, con il pensiero che altri sono più bravi di te” ma ognuno porterà il suo contributo irripetibile, il suo sguardo laterale.

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