“Ma si diventa davvero altro da sé quando si perde la memoria? Che cosa accade nel mondo della demenza? Si è davvero soli, oppure le relazioni affettive, nonostante tutto, restano possibili?”
“Aiutami a ricordare”, libro del Professor Marco Trabucchi, edito da Edizioni San Paolo, non è solo un testo che segue i segmenti scientifici di quella che è stata la ricerca finora condotta nel campo della demenza ma è un susseguirsi di afflati di vita professionale, umanità, accurata ricerca, sguardo alle dinamiche intrapsichiche e interpersonali che connotano l’esperienza del nucleo familiare dopo la diagnosi di disturbo neurocognitivo maggiore, da quando il proprio coniuge, la propria figlia, il proprio figlio comincia ad affermare davanti a un medico “Non è più lui”.
Una raccolta di informazioni precise, avvolte da realismo e amorevole speranza.
Il Professor Marco Trabucchi nel suo magnifico libro riesce a mescolare egregiamente nozioni teoriche con vissuti tratti dall’ascolto empatico di storie familiari uniche, irripetibili anche se segnate da uno stesso filo conduttore, scandite dalle fasi tipiche dell’evoluzione della malattia che non deve mai rimanere un mero elenco temporale ma deve sempre mirare a osservare, tenere a mente la singolarità di quell’individuo coinvolto.
Il Titolo ci fa già comprendere l’attenzione che il Professore rivolge alle parole, scelte con meticolosa cura. Ogni parola è frutto di una riflessione profonda perché chi, come me, ha avuto la fortuna di incontrarlo sa che riconosce il valore delle parole quali promotori di un cambiamento, di una trasformazione culturale, vascelli di speranza che danno possibilità di indossare lenti diverse per attraversare la fragilità, fermarsi al suo cospetto e scoprirne le sfumature di forza.
Nello slogan utilizzato in occasione dell’Alzheimer fest, “L’alzheimer non cancella la vita”, è sintetizzato l’impegno di anni profuso per conoscere la malattia, i vari aspetti coinvolti, i servizi sul territorio italiano; In quell’agglomerato di senso è racchiuso il desiderio profondo di diffondere conoscenza e metodo per comprendere la patologia e stare accanto a chi soffre, chi cura “e deve saper leggere i volti”.
In queste pagine non vi è solo una spiegazione di cos’è l’Alzheimer e quali sono i sintomi che definiscono la patologia, vi è un’analisi complessa delle dinamiche sociali, dell’evoluzione epidemiologica, dell’importanza della prevenzione, della nuova organizzazione familiare degli ultimi anni nel contesto italiano, delle motivazioni e dei vissuti di chi assiste il malato in casa e di chi se ne occupa in struttura. Vi è l’analisi dei progressi scientifici compiuti, delle false speranze dei nuovi farmaci e degli obiettivi futuri che la ricerca si pone con etica e lungimirante attesa. Vi è la sensibilità di scorgere il disagio psichico legato non solo all’essere caregiver di una persona affetta da demenza ma anche di quello che significa partire da una sofferenza economica, da una scarsa rete di supporto, dalla difficoltà di orientarsi nei servizi o di possedere spazi protetti idonei soprattutto quando siamo in presenza di disturbi psico-comportamentali quali wondering, alterazioni del ritmo sonno-veglia, aggressività.
Tutto questo si traduce nell’importanza di assistere non solo chi è affetto dalla patologia ma di “dare alla famiglia la sensazione di essere al centro di un sistema che interviene a tempo debito, in modo mirato e non casuale […] perché una famiglia dominata dal dolore e dalla fatica rischia di essere meno efficace anche nell’azione di cura”
Mai artificioso e mai orientato a edulcorare la realtà, l’autore mette a disposizione del lettore conoscenze e pensieri autentici.
Il Professore ha svolto un corso di formazione agli operatori anche nella struttura in cui lavoro e quando mi sono ritrovata a leggere le descrizioni delle sue sensazioni durante gli incontri, l’orgoglio che suggerisce dovrebbero provare gli oss per il loro ruolo centrale in RSA, ho sentito l’istinto di pronunciare a gran voce “E’ vero”, lo pensa fermamente e lo trasmette con rispetto e stima.
Lieta di vedere trasformata in inchiostro la visione delle RSA come “mondi vitali” perché dall’esterno, da alcuni articoli di giornali l’idea di questi luoghi come anticamere della morte o luoghi infestati dalla noia e dalla non curanza allontanano da quello che sono ovvero spazi di cura in cui viene data importanza alle biografie personali per una cura sartoriale, dove si prova a dare continuità alla vita culturale e sociale pre-ingresso, dove si tessono relazioni cruciali nel ponte che tiene insieme fragilità e vita, “dove si coglie subito l’atmosfera che si respira”.
Quando mi sono laureata, presentando una tesi sull’attaccamento e il trauma, non immaginavo di lavorare in campo psicogeriatrico. Mi sono ritrovata in una RSA, innamorandomi ogni giorno di quello che vuol dire cura dell’anziano fragile, cercando di mettere a disposizione di chi soffre la mia passione, le mie competenze, la mia presenza empatica. La mia riflessione sull’importanza relazionale “dalla culla alla tomba” come diceva J. Bowlby è stata accentuata e declinata in ambito psicogeriatrico dalla lettura del testo del Professore. “Il bisogno di relazione che caratterizza la vita in ogni condizione è particolarmente importante quando il disturbo cognitivo sembra allontanare la possibilità di percorrere ponti tra le persone[…] La persona con demenza è capace di comprendere chi le vuole bene, chi l’accompagna con dolcezza e attenzione e chi, invece, esprime trascuratezza, abbandono, talvolta persino aggressività”.
Michela Marzano, curatrice della prefazione a questo scrigno di scienza e umanità, nel suo romanzo “Idda” scrive “E’ Idda che mi ha aiutato a capire ciò che resta quando si perdono pezzi interi della propria storia, la forza dell’amore che sopravvive all’oblio la potenza carsica delle relazioni affettive”.
Nel testo non viene dato risalto solamente all’impatto emotivo-relazionale del malato ma anche alla correlazione tra cura e dono perché la relazione profonda è strutturale all’atto di cura.
Anche in questo snodo cruciale il Professore non dimentica l’aspetto realistico, le reazioni viscerali che possono emergere perché costruire una relazione che necessita di impalcature diverse, che necessita di contatti non verbali, di interazioni identiche, ripetute ma che non devono mai apparire forzate, finte, vicinanza fisica a volte silente, sguardo empatico. Tutto questo vuol dire imporre uno sforzo a un nostro sistema naturale basato sugli scambi verbali, sulla capacità dialogica. “Per molti è complesso e difficile da reggere” […] soprattutto se si volge lo sguardo al futuro che inevitabilmente si rintraccia all’orizzonte per i malati affetti da demenza.
Subentra fra i corridoi, fra gli atti di cura il germe della negatività che ci porta a domandarci perché invecchiare dimenticando chi si è? Perché il percorso che spetta a questi anziani fragili è così duro?
“Molte volte è più facile che scorgiamo ombre lunghe, come sono lunghe quelle della sera, quando la luce sta scemando prima che giunga la notte. Ecco di questo sforzo faticoso e un po’ straordinario a cui ci chiamano i pazienti (senza quasi mai chiederlo esplicitamente) dovremmo esser loro riconoscenti. Perché questo allenamento a essere altruisti in presenza di un’ombra del futuro molto sfumata, quasi irrintracciabile- insieme a molto altro- è il dono che ci fanno: quello di costringerci a impratichirci in cose difficili, come si impara a scalare una parete di roccia ripida, a governare una barca con vento forte o, più semplicemente, a vivere nel quotidiano le contrarietà della vita senza avere troppa paura. Insomma: saper fare le cose difficili con normalità”, “vivere nel qui e ora”, imparare a narrare, “riconoscere l’importanza di tante piccole cose che ne fanno gigantesche” perché la cura richiede il coinvolgimento di molteplici aspetti, molteplici figure, molteplici piccoli interventi.
“La demenza è una palestra per i legami”.
“Assistere la persona affetta da demenza richiede la duplice capacità di prestare le cure e curare. L’impegno a favore del malato ha bisogno sia di competenze tecniche sia di una visione globale caratterizzata dalla capacità di accompagnare, tollerare, consigliare, rasserenare, amare” e per farlo occorrono “due virtù e condizioni indispensabili: curiosità e gentilezza. La curiosità è una dote che permette di capire fino in fondo i bisogni dell’altro e come tale aiuta a dare valore soggettivo, oltre che oggettivo, al lavoro di cura. […] La gentilezza è l’altro strumento operativo che rende efficace l’intervento [..], segno di una moralità profonda. Una delle espressioni della gentilezza è l’affidabilità che dà stabilità alla relazione”.
Ad ogni pagina si respira la vera essenza del Professor Trabucchi, che con grande umiltà trasmette la sua competenza ed esperienza, si respira la quotidianità perché la sua personalità colta non è solo frutto della sua carriera e della sua formazione ma ha visitato le strutture, ha parlato con le famiglie, gli anziani, gli operatori, i dirigenti, il personale ausiliario delle strutture, le persone che fanno parte delle associazioni. Ad ogni pagina c’è la sintesi dei chilometri percorsi dal Nord al Sud dell’Italia per ascoltare, discutere, dialogare, esporre, supportare, condividere il modello di cura per l’anziano. Dentro le pagine di “Aiutami a ricordare” c’è la vita vera su solide fondamenta scientifiche ed è questa la differenza che rende l’autore, il medico, la persona che lo ha scritto unica, guida di professionisti, ed è dietro le frasi che si susseguono la ricchezza di quello che è stato costruito dal Professore ovvero l’associazione italiana di psicogeriatria, un gruppo che si muove all’unisono per far avanzare gli studi che hanno come obiettivo cardine il benessere dell’anziano, il “vivere bene”.
Leggere questo libro non è utile solo ai familiari di chi soffre, agli operatori che lavorano nei servizi dedicati alle persone affette da demenza ma aiuterebbe ogni individuo, seppur lontano da questo mondo, ad esperire quell’umanità, quella sensibilità verso le fragilità, le relazioni, le fasi della vita, il senso della storia di ognuno. Leggere questo libro aiuterebbe ogni individuo a ripensare come questa patologia ci sfiora anche quando pensiamo non ci tocchi e la descrizione di quello che sono le comunità amiche della demenza ce lo dimostra.
Leggere questo libro è come parlare con il Professore e chi ha avuto l’onore di confrontarsi con lui può solamente confermare e sono certa. Riconoscere fra le righe la sua anima è il riflesso della spontaneità con cui dalle dita alla tastiera del pc sono state trasmesse le idee che sono state affidate alle pagine. Leggere questo libro significa arricchire il proprio bagaglio culturale e umano.
“Il testo è dedicato a tutti quelli che nella vita e nel lavoro con gli anziani mettono la tenerezza al centro dei loro comportamenti, la tenerezza permette di capire la sofferenza” e davvero mi sono sentita di appartenere a questo testo come penso che ogni lettore, professionista, familiare, cittadino possa sentirlo suo.
Grazie Professore per aver fatto sì che la sua esperienza potesse divenire dono per tutti rispecchiando il principio secondo cui, come affermava Gadamer, “la cultura è l’unico bene che diviso fra tutti anziché diminuire diventa più grande”.